Una matassa difficile da sbrogliare per gli “albergatori”
L’imposta di soggiorno è un tributo introdotto dall’art. 4 del D.Lgs. n. 23/2011 (cd. “federalismo fiscale municipale”), che i comuni capoluogo di provincia e quelli inseriti negli elenchi regionali delle località turistiche o città d’arte possono istituire a carico degli “ospiti” soggiornanti nelle “strutture ricettive” situate nel loro territorio.
I soggetti passivi sono gli “ospiti”, quali contribuenti concretamente incisi.
Inizialmente, la legge istitutiva non disciplinava le modalità di attuazione, rinviandole a un regolamento (DPR); tuttavia, mancando l’adozione di quest’ultimo, i singoli comuni hanno applicato in vario modo l’imposta, creando incertezze e problemi per le strutture ricettive. I regolamenti comunali individuavano nei gestori i soggetti responsabili degli obblighi tributari che dovevano riscuotere l’imposta e riversarla nelle casse degli enti locali. Tant’è vero che in caso di omesso o ritardato versamento del tributo riscosso dagli ospiti, il recupero coattivo veniva rivolto alle strutture ricettive, aggiungendo l’applicazione della sanzione amministrativa tributaria del 30% (art. 13 del D.Lgs. n. 471/1997).
La giurisprudenza “contabile” e di “legittimità” affermava che i gestori, in quanto riscossori dell’imposta per conto dei comuni, assumevano lo status di “agenti contabili”, e quindi di incaricati di pubblico servizio (art. 358 cp), stante il “materiale maneggio” di denaro pubblico comportante l’obbligo di resa del conto. Per cui, la responsabilità derivava dalla natura pubblicistica delle somme provenienti dagli ospiti, dato che, una volta ricevuto il tributo, i gestori dovevano custodirlo per poi riversarlo nelle casse comunali. In altri termini, la giurisprudenza individuava in capo alle strutture ricettive l’incarico di svolgere un’attività ausiliaria nei confronti dei comuni (enti impositori) di portata strumentale all’attuazione del rapporto tributario sussistente tra gli enti e gli ospiti; cosicché, si riteneva che costoro ricoprissero il ruolo di incaricati della riscossione dell’imposta per conto degli enti pubblici. In questo modo, l’omesso o il tardivo versamento delle somme incassate esponeva le strutture ricettive alle sanzioni tributarie, oltreché alla responsabilità contabile e penale (reato di “peculato” art. 314, co. 1 cp, punito con la reclusione da 4 anni a 10 anni e 6 mesi). A titolo esemplificativo: fatto 100 il tributo incassato dagli ospiti, il mancato riversamento nelle casse comunali faceva scattare in capo ai gestori non solo il recupero coattivo di 100 e l’applicazione della sanzione tributaria di 30, ma anche la responsabilità contabile per 100 (sottratta naturalmente la quota di tributo nel frattempo restituita all’ente) e la denuncia per il cd. “peculato dell’albergatore”, quale reato perfezionatosi a seguito dell’appropriazione da parte della struttura ricettiva (quale incaricato di pubblico servizio) dell’imposta ottenuta dagli ospiti.
Dinanzi alle lacune legislative dell’originaria disciplina (art. 4 del D.Lgs. n. 23/2011), foriera di incertezze anche in ordine all’applicazione dell’art. 7 Cedu nel senso della prevedibilità e calcolabilità delle norme adesso discusse, la descritta ricostruzione giurisprudenziale si è consolidata – in senso sfavorevole ai gestori – soltanto nel corso del 2016 con la pubblicazione della sentenza n. 22/2016 della Corte dei Conti – sezioni riunite, condivisa dalla Corte di Cassazione per sussumere la condotta dei gestori nel reato di “peculato”. Si riteneva, infatti, che le strutture ricettive rispondessero del maneggio dell’imposta sotto il profilo tributario, contabile e penale.
Inoltre, la giurisprudenza opinava che i riflessi penali e contabili gravassero in capo ai gestori anche per gli anni precedenti al 2016 (data di pubblicazione della citata sentenza n. 22/2016), benchè fino a quel momento costoro non possedessero le informazioni sufficienti per comprendere di ricoprire, secondo la giurisprudenza, il ruolo di agenti contabili, e quindi non erano prevedibili le gravi conseguenze a cui costoro si esponevano in caso di omesso, ritardato o parziale versamento ai comuni delle somme incassate dagli ospiti. A ben vedere, al momento dell’inadempimento le strutture ricettive non potevano prefigurarsi il rischio dell’incolpazione contabile e dell’imputazione penale, anzi erano fondatamente persuase di commettere tutt’al più un’infrazione tributaria rimproverata – seppur dai regolamenti comunali anziché dalla legge – con la sanzione amministrativa pari al 30% delle somme non versate.
Tuttavia, le pronunce giurisprudenziali apprezzavano i casi concreti soltanto in base alla disciplina introduttiva dell’imposta di cui all’art. 4 del D.Lgs. n. 23/2011 e ai regolamenti comunali. Risultava, invece, pretermessa l’applicazione delle norme integrative prodotte dal legislatore all’indomani dell’introduzione del tributo. Mi riferisco, per l’esattezza, alla previsione del “contributo di sbarco” (art. 4, co. 2-bis del DL n. 16/2012), del regime fiscale delle “locazioni brevi” (art. 4, co. 5-ter del DL n. 50/2017) e, infine, alla modifica dell’Imposta di soggiorno per effetto dell’art. 180, co. 3 del DL n. 34/2020 (cd. decreto “rilancio”), quali norme succedutesi per colmare il deficit attuativo del tributo, nel senso di assegnare al gestore il ruolo di “sostituto d’imposta”, vale a dire colui che in base alla legge è obbligato al pagamento tributario “in luogo” dell’ospite, riconoscendogli pure il “diritto di rivalsa” su quest’ultimo. Il novus normativo ha, persino, chiarito che la violazione degli obblighi del gestore comporta l’applicazione delle sanzioni amministrative tributarie, tra cui quella del 30% in caso di omesso, ritardato o parziale versamento dell’imposta discussa.
Con particolare riguardo all’art. 180, co. 3 del DL n. 34/2020, può essergli assegnata la valenza di fonte integratrice dell’originaria disciplina dell’Imposta di soggiorno contenuta nell’art. 4 del D.Lgs. n. 23/2011, nel senso di definirne le modalità attuative in modo uniforme e generale, così da rimediare alle incertezze derivanti dai numerosi regolamenti applicati autonomamente dai singoli comuni. Milita a favore di ciò anche la considerazione secondo la quale la disposizione di cui all’art. 180, seppur appartenente alla legislazione prodotta dal Governo per contenere la diffusione del covid-19, è priva di natura “eccezionale” e di disciplina “intertemporale”. Per questa ragione, può ritenersi norma applicabile anche ai fatti commessi al di fuori del periodo emergenziale, senza essere circoscritta a casi e tempi predeterminati o predeterminabili a priori.
Comunque, per limitare la responsabilità dei gestori soltanto a quella tributaria, e quindi per escludere i descritti riflessi contabili e penali, pare corretto riconoscere ai recenti interventi legislativi il ruolo di “canone ermeneutico” al fine di qualificare le strutture ricettive come “sostituto” degli ospiti e il tributo come “debito proprio” delle stesse da versare nelle casse comunali a prescindere dalle somme incassate dagli ospiti. Logica conseguenza di ciò è che la mancata corresponsione del tributo a favore degli enti pubblici non integra in capo ai gestori la responsabilità contabile e neppure quella penale per i reati appropriativi, restando l’illecito nell’area delle violazioni tributarie.
Tuttavia, anche all’indomani dell’introduzione dell’art. 180 si sono riproposte numerose oscillazioni giurisprudenziali in merito alla qualifica soggettiva delle strutture ricettive, e quindi in relazione alle loro responsabilità.
In particolare, per gli inadempimenti successivi all’entrata in vigore dell’art. 180 del DL n. 34/2020 (19.5.2020), la recente giurisprudenza è univoca nel ritenerli penalmente irrilevanti, escludendo la configurazione del “peculato dell’albergatore”, perché quest’ultima norma ha modificato i compiti del gestore nel senso di configurarlo (per il futuro) quale responsabile del pagamento del tributo, e come tale esposto soltanto alle sanzioni amministrative tributarie. Diversamente, la Corte dei Conti, ai fini della configurazione dell’illecito contabile, ancora oggi pare confermare l’interpretazione offerta dalla citata sentenza delle Sezioni riunite anteriormente all’introduzione dell’art. 180, ribadendo la natura di agente contabile pure per le condotte future, perché: “la suddetta disciplina, mentre appare aver operato una specifica depenalizzazione della condotta illecita del gestore di struttura alberghiera, nulla ha innovato in ordine alla responsabilità contabile del gestore stesso, che assume a veste di responsabile del pagamento, un agente contabile che maneggia denaro pubblico e che è tenuto a riversarlo nelle casse dell’ente” (cfr. Corte Conti Appello sent. n. 188/2020).
La soluzione è più complicata per le condotte anteriori, a fronte delle quali si frappongono due orientamenti opposti, l’uno capeggiato dalla Corte di Cassazione (e dalla Procura della Repubblica di Roma), l’altro affermato da alcuni Tribunali, i quali offrono diverse opzioni per applicare o meno il principio della successione di leggi penali (ed extrapenali) codificato nell’art. 2, co. 2 cp, in forza del quale: “nessuno può essere punito per un fatto che, secondo una legge posteriore, non costituisce reato; e se vi è stata condanna, ne cessano l’esecuzione e gli effetti penali”. Si tratta, in particolare, di applicare le diverse opzioni ermeneutiche affermatesi sul tema delle “modifiche mediate” della fattispecie incriminatrice.
Comunque, tutte le pronunce finora pubblicate, hanno trattato il tema dell’abolitio criminis ritenendo sussistente il presupposto di cui all’art. 2, co. 2 cp, rappresentato dall’originaria rilevanza penale (come peculato) del mancato versamento dell’imposta da parte delle strutture ricettive.
Nello specifico, la Corte di Cassazione (sent. n. 30227/2020), attingendo ai principi enunciati dalle Sezioni Unite nella nota sentenza Magera (n. 2451/2007), ha escluso che a fronte dell’art. 180, co. 3 si sia verificato un fenomeno di abolitio criminis rispetto al reato di peculato, perché “si sarebbe esclusivamente limitato a rimeditare, per il futuro, la qualifica soggettiva dei gestori delle strutture ricettive … il novum normativo non avrebbe espunto dalla macro-categoria degli incaricati di pubblico servizio la sottocategoria degli incaricati della riscossione delle imposte per conto di un ente pubblico”. Vale a dire che in relazione ai fatti pregressi (al 19.5.2020) permarrebbe in capo ai gestori la qualifica di agente contabile, e quindi l’attitudine della loro condotta a integrare il reato di “peculato dell’albergatore”.
In termini antitetici si sono espressi alcuni Tribunali (Rimini, Roma, Firenze, Perugia), i quali, con varie opzioni, hanno interpretato l’art. 180, co. 3 in chiave di “abolitio criminis” (art. 2, co. 2 cp), qualificando extrapenale l’inadempimento delle strutture ricettive. In particolare, il Tribunale di Perugia (sent. 1936/2020), replicando i principi affermati dalle Sezioni Unite nella sentenza Di Lorenzo (n. 1963/2010), ha rinvenuto questa soluzione nel principio di “specialità” dettato dall’art. 9 della L. n. 689/1981, e per questa strada ha risolto il concorso eterogeneo dell’art. 180, co. 3 con l’art. 314 cp (peculato) a favore dell’illecito amministrativo di “nuovo conio”, dichiarandolo persino irretroattivo rispetto alle condotte delle strutture ricettive precedenti alla novità legislativa del 2020.
Aderendo alla seconda tesi, e quindi ritenendo che l’art. 180 abbia modificato la disciplina extrapenale incidente sul reato di peculato, nel senso di comportarne la parziale abolitio, si determinano i seguenti effetti penali in capo al gestore già denunciato per il reato di peculato: a) archiviazione o assoluzione dei procedimenti in corso, perché “il fatto non è previsto dalla legge come reato”, con eventuale caducazione delle misure cautelari nel frattempo applicate; b) revoca ex art. 673 cpp delle sentenze di condanna, e dell’eventuale confisca dei beni.
In realtà, le leggi fin qui intervenute consentono di ricostruire diversamente l’applicazione del tributo, dato che le soluzioni sinora descritte stridono anche con i principi internazionali (art. 7 Cedu) e costituzionali (artt. 3/25 Cost.).
È, infatti, agevole ricostruire l’Imposta di soggiorno nel seguente modo:
- I gestori sono sempre stati sostituti d’imposta rispetto al tributo gravante sugli ospiti, e quindi soggetti obbligati al pagamento “in luogo” dell’ospite, con “diritto di rivalsa” su quest’ultimo. Cosicché, le strutture ricettive, avendo un “debito proprio” nei confronti dei comuni per i soggiorni degli ospiti, sono rimproverate (sia prima che dopo l’entrata in vigore dell’art. 180, co. 3 del DL n. 34/2020) per il mancato o tardivo versamento del tributo soltanto con l’applicazione della sanzione amministrativa tributaria del 30%, quale misura afflittiva prevista dalle norme che, via via, hanno colmato le originarie lacune dell’art. 4 del D.Lgs. n. 23/2011.
- I gestori non sono qualificabili come “agente contabile”, ovvero “incaricato di pubblico servizio”, considerata la natura “propria” del debito maturato su costoro a fronte del soggiorno degli ospiti. Ne consegue, pertanto, l’impossibilità di sussumere l’inadempimento delle strutture ricettive nella condotta appropriativa di “peculato” (art. 314, co. 1 cp) e nella responsabilità contabile.
- Il rapporto di interferenza tra l’art. 314 cp e l’art. 180, co. 3 fuoriesce dall’abolitio criminis, considerata la mancanza del presupposto applicativo dell’art. 2, co. 2 cp, perché fin dall’istituzione del tributo era penalmente irrilevante l’inadempimento dei gestori.
In conclusione, la solita bacchetta magica della “burocrazia” ha disciplinato anche l’Imposta di soggiorno mediante una moltitudine di leggi oscure incidenti fino ad oggi negativamente sulle strutture ricettive, penalizzandole con norme complicate che trascuravano i basilari principi dell’ordinamento giuridico nazionale e unionale, senza mantenere il focus sui reali bisogni dei cittadini, prima tra tutti la certezza delle situazioni giuridiche.
Insomma, è l’ennesima occasione sprecata dal legislatore!