Recupero dell’Iva sugli acquisti documentati con fatture “soggettivamente” inesistenti.
Una società di capitali operante nel settore del commercio elettronico deduceva l’acquisto di beni documentati con fatture che l’Agenzia delle Entrate reputava emesse a fronte di operazioni “soggettivamente inesistenti” perché: a) il venditore era una“cartiera”, ovvero un soggetto privo di organizzazione; b) i beni provenivano da imprecisati operatori economici diversi dal soggetto emittente le fatture detratte; c) la società acquirente era in malafede per aver consapevolmente intrattenuto rapporti commerciali con una cartiera partecipante a un carosello comunitario, al fine di acquistare e vendere i beni “sottocosto”, ovvero a prezzi inferiori rispetto a quelli di mercato.
In sintesi, l’Agenzia affermava la falsità (soggettiva) delle fatture perché documentanti cessioni “simulate”, in quanto effettuate da un fornitore diverso e di ciò si sarebbe avvantaggiato l’acquirente per commercializzare la merce a prezzi inferiori rispetto a quelli del “mercato” di riferimento. Inoltre, l’Ufficio, ritenendo il beneficio commerciale derivante dall’omesso versamento Iva asseritamente verificatosi “a monte” degli acquisti effettuati dalla società acquirente, intravedeva lo “scopo del carosello” nell’alterazione del libero mercato mediante applicazione di prezzi più bassi di quelli normalmente praticati.
L’avviso di accertamento impugnato dalla società veniva ritenuto illegittimo dalla Commissione Tributaria Regionale di Firenze (sentenza n. 1564/4/2018) e, successivamente, dalla Corte di Cassazione, per le seguenti ragioni:
Cass. n. 24357/2021
“In tema di IVA, qualora l’Amministrazione finanziaria contesti che la fatturazione attiene ad operazioni soggettivamente inesistenti, inserite o meno nell’ambito di una frode carosello, incombe sulla stessa l’onere di provare la consapevolezza del destinatario che l’operazione si inseriva in una evasione dell’imposta dimostrando, anche in via presuntiva, in base ad elementi oggettivi specifici, che il contribuente fosse a conoscenza, o avrebbe dovuto esserlo usando l’ordinaria diligenza in ragione della qualità professionale ricoperta, della sostanziale inesistenza del contraente; ove l’Amministrazione assolva a detto incombente istruttorio, grava sul contribuente la prova contraria di avere adoperato, per non essere coinvolto in un’operazione ad evadere l’imposta, la diligenza massima esigibile da un operatore accorto, secondo criteri di ragionevolezza e di proporzionalità in rapporto alle circostanze del caso concreto. La Commissione Tributaria Regionale si è attenuta ai suddetti principi là dove – affermando in diritto che, perché possa configurarsi una frode carosello, occorre che l’Ufficio provi la consapevolezza, in capo alla parte contribuente, del ciclo frodatorio e in fatto che tale prova non è stata raggiunta in quanto gli elementi forniti dall’Ufficio non sono sufficienti: in particolare di nessun significato sono le circostanze relative alla trattative d’acquisto tramite Skype, la sussistenza di uno iato cronologico fra l’emissione della fattura e l’invio della merce o fra quest’ultimo e il pagamento del materiale acquistato, la richiesta della parte contribuente all’acquirente di reperire merce proveniente da un “canale europeo” – ha svolto una corretta applicazione del suddetto principio ponendo correttamente in capo all’Ufficio l’onere della prova della suddetta frode e non ritenendo raggiunta tale prova, seguendo un iter motivazionale ragionevole, che non può essere oggetto di contestazione in sede di legittimità”.
Per saperne di più sul caso giudiziario, scrivi a studio@robertosimoni.it, ti rispondo personalmente!