Una società (a base personale) operante in materia di impianti di illuminazione appaltava alcuni servizi a una ditta individuale, che vantava un’esperienza pluriennale nel settore della manutenzione e riparazione civile e industriale.
Il rapporto contrattuale si svolgeva, senza soluzione di continuità, per numerosi anni, e la società appaltante non aveva mai notato anomalie nella struttura dell’appaltatore.
Tuttavia, dopo la conclusione dell’appalto, la ditta appaltatrice subiva una verifica fiscale all’esito della quale veniva accertata l’evasione tributaria per non aver tassato i ricavi derivanti dalle predette opere e il titolare veniva denunciato per aver commesso il reato di “dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici” (art. 3 del D.Lgs. n, 74/2020) in quanto aveva occultato i propri redditi anche distruggendo le fatture di vendita.
Le accuse contro l’appaltatore si consolidavano per mancata impugnazione degli accertamenti tributari e per patteggiamento del descritto delitto.
Il pagamento di un’ingente somma di denaro, per oltre 3 milioni di Euro, oltre al processo penale a carico dell’amministratore.
L’Agenzia delle Entrate rettificava il reddito societario e recuperava le relative imposte Irap e Iva, oltre le sanzioni, perché riteneva “oggettivamente inesistenti” i servizi documentati dalle fatture dell’appaltatore, e quindi indeducibili i relativi costi scomputati negli anni dal 2003 al 2006.
Da qui scaturivano anche gli accertamenti dei maggiori redditi personali dei soci in relazione al maggior reddito societario tassato in capo a ciascuno di essi.
Inoltre, i soci ricevevano dall’Inps le cartelle di pagamento con cui venivano pretesi i contributi previdenziali eccedenti i minimali di legge.
Infine, l’amministratore veniva denunciato per il reato di “dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture false”previsto dall’art. 2 del D.Lgs. n. 74/2000.
Le accuse si fondavano sugli inadempimenti tributari dell’appaltatore e facevano leva sulla sua natura di “cartiera” derivante dalla ipotizzata mancanza di una struttura aziendale occorrente per realizzare i servizi acquistati dalla stazione appaltante.
Le contestazioni amministrative dovevano essere dimostrate dall’Agenzia delle Entrate e dall’Inps in base alla ben nota regola di “riparto probatorio” (art. 2697 cc), anche mediante l’utilizzo di presunzioni “gravi, precise e concordanti” (artt. 2727, 2729 cc).
Del pari, sul versante penale spettava alla Procura della Repubblica fornire la prova della falsità delle fatture emesse dalla ditta appaltatrice, e quindi era rimessa al Giudice penale l’apprezzamento del compendio indiziario corredante il reato ascritto all’amministratore.
La difesa era complessa e di incerta soluzione, perché gli indizi raccolti a carico dei clienti apparivano solidi e convergenti nel senso della conferma della tesi accusatoria e sui temi dibattuti la giurisprudenza non era totalmente favorevole agli stessi clienti.
Tutte le azioni difensive sono state accolte, con azzeramento delle richieste di pagamento dell’Agenzia delle Entrate e dell’Inps, e assoluzione (con formula piena) dell’amministratore dal reato ascrittogli.
La CTP Arezzo ha annullato gli accertamenti tributari elevati a carico della società e dei soci, apprezzando mancante la prova occorrente per rettificare i costi contestati, perché il coacervo indiziario offerto dall’Agenzia, valutato isolatamente e alla luce delle prove contrapposte dai contribuenti, è stato apprezzato insufficiente per fondare le richieste avanzate con gli atti accertativi. In particolare, il Giudice ha valutato le risultanze accertative non sussumibili nei requisiti occorrenti per assurgere al rango di prova presuntiva (artt. 2727/2729 cc), e quindi per fondare la falsità dei documenti emessi dall’appaltatore, sia in merito alla natura di “cartiera” di quest’ultimo, sia per la mancata erogazione dei servizi resi alla società appaltante.
Si riporta la motivazione della statuizione favorevole:
“Scarsi elementi di carattere sostanziale non possono costituire quei concreti indizi che giustificherebbero i benefici fiscali di cui avrebbe goduto la società ricorrente. Si parla di lavoratori al nero che non risultano meglio identificati, neppure in relazione alle ipotetiche unità. Non è dato conoscere se sia stata attivata in proposito la Direzione Provinciale del Lavoro per i provvedimenti specifici e le iniziative di competenza. Al contempo risulta altresì che la ditta appaltatrice ha operato presso il Comune di … e per altre società nei cui confronti non sono sorti dubbi sulla bontà delle operazioni addebitate. Non può non sottacersi per di più che nei confronti della ditta appaltatrice risulta una sentenza penale di condanna che non fa riferimento all’emissione di falsa fatturazione. Stante, pertanto, l’assoluta impossibilità di formulare una concreta ipotesi di colpevolezza, il ricorso è accolto”.
Ai fini previdenziali, il Tribunale di Arezzo ha accolto le opposizioni dei soci riconoscendo efficacia caducatoria alla sentenza tributaria rispetto ai debiti previdenziali, considerata la natura pregiudiziale della rettifica reddituale sull’obbligazione previdenziale. Si trascrive il convincimento giudiziario:
“La sentenza di accoglimento della CTP Arezzo produce i suoi effetti anche nei confronti dei singoli soci, in quanto l’annullamento del presupposto impositivo sotto il profilo fiscale determina anche il venir meno di maggiori contributi accertati dall’Agenzia delle Entrate e trasporti negli avvisi di accertamento. I maggiori contributi previdenziali accertati dall’Agenzia in capo ai singoli soci sono infatti riportati nelle cartelle di pagamento emesse dall’Inps e non sono dovuti per effetto dell’anzidetta decisione, che, nel far venire meno il presupposto impositivo nei confronti della società, riverbera automaticamente i propri effetti sulle posizioni dei singoli soci della società di persone”.
Infine, il Tribunale di Firenze ha pronunciato la piena assoluzione dell’amministratore dal reato ascrittogli (art. 2 del DLgs n. 72/2000), sulla base di due distinte ragioni di seguito riportate:
“Le fatture contestate all’imputato ai sensi dell’art. 2 del DLgs n. 74/2000 sono state contestate alla ditta appaltatrice ai sensi del diverso reato di cui all’art. 3 del DLgs n. 74/2000 rimproverando a quest’ultima di aver indicato nelle dichiarazioni annuali relative alle imposte sui redditi e sul valore aggiunto elementi attivi per un ammontare inferire a quello effettivo, sulla base di una falsa rappresentazione nelle scritture contabili obbligatorie consistita nella mancata annotazione di fatture relative a ricavi effettivamente conseguiti, nonché avvalendosi di mezzi fraudolenti idonei ad ostacolare l’accertamento, consistiti nella distruzione delle predette fatture. Rispetto a tale accusa mossa nei confronti dell’appaltatore è intervenuta sentenza di condanna passata in giudicato, per cui l’accertamento della penale responsabilità dell’appaltatore esclude in radice la responsabilità dell’imputato in relazione a tali fatture, perché un documento fiscale (le fatture) non può essere ritenuto vero per alcuni imputati e falso per altri. Ma vi è di più. L’Agenzia delle Entrate ha scoperto che la ditta appaltatrice in realtà si avvaleva di lavoratori al nero che venivano retribuiti con la somma di € xxx. Tutti i lavoratori hanno dichiarato che effettuavano i lavori a favore della ditta appaltatrice”.
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